Archivio | luglio, 2012

Esercizio di autoanalisi fotografica

23 Lug

Ricordare è un atto creativo (Linda Seger)  

 Vi siete mai domandati, veramente, quali sono le immagini che vi portate dentro senza saperlo, le immagini che si sono depositate in quello strano magazzino che è la memoria? Non parlo delle immagini che abbiamo studiato o scelto come modelli di riferimento (saranno oggetto di un altro articolo ed esercizio). Quelle cui mi riferisco sono immagini, come dire?, “pre-fotografiche”, che hanno impressionato chissà quando e perché, la camera oscura della nostra mente, della nostra esperienza. E un bel giorno, a nostra insaputa, sono ricomparse nei nostri scatti, come i fiumi carsici che scorrono sotterranei e ignorati per chilometri e poi affiorano alla superficie. Cerco di chiarire l’idea con un esempio prelevato da Il mestiere di fotografo del fotografo iraniano Reza.

Da bambino passavo ore con mio fratello a far circolare le nostre automobili giocattolo lungo gli arabeschi dei tappeti persiani di casa. Forme e colori intessuti con sapienza da mani esperte di Tabric o di Kashan hanno costituito il nostro primo universo visivo. Più degli altri colori, il rosso era la costante di quelle opere divenute terreno di gioco.

Per Reza, dunque, il primo universo visivo è formato dagli intrecci delle linee dei tappeti sui quali giocava e, soprattutto, dal colore rosso. Un universo visivo rosso, che il fotografo del National Geoghaphic, ha poi riconosciuto in molte delle fotografie scattate negli anni: che simboleggi il sangue, la violenza, le ferite oppure l’amore, la passione, il calore, la vita, questo colore, complice dei miei giochi d’infanzia, si mescola col mondo che vedo e catturo attraverso e mie inquadrature.

L’esercizio che propongo per il training del fotografo è tutto qui: prendersi un po’ di tempo per immergersi nella memoria, frugare tra i ricordi per rinvenire qualche frammento del nostro primo universo visivo che possa illuminare, di luce nuova e più intima, le nostre fotografie. Oppure, possiamo capovolgere l’esercizio e partire dalle inquadrature di oggi e risalire nella memoria, usando gli scatti come piccole chiavi di accesso alle nostre impressioni sepolte.

Come al solito ho sperimentato su di me questo esercizio. I risultati li ho raccolti nell’articolo Perché amo certe foto pubblicato nell’altro mio blog      

(http://compagniadeifotografi.blogspot.com/2012/01/perche-amo-certe-foto.html)

e al quale rinvio per non appesantire la lettura del post di oggi.

Se anche per voi ricordare è un atto creativo, quali sono i vostri universi visivi sepolti?

Fotografia come forma di intercettazione

19 Lug

Un rapido appunto preso dal ricchissimo libro che Annamaria Testa ha dedicato alla creatività: La trama lucente.

All’origine [della creatività] c’è un atteggiamento mentale. Curiosità, insoddisfazione, inquietudine. Una maniera di osservare il mondo intercettando dettagli significativi e facendosi domande non ovvie.

Una maniera di osservare il mondo intercettando dettagli significativi: sembra la definizione dell’atto fotografico, della sfida quotidiana che l’occhio del fotografo ingaggia con la realtà.

Intercettare. Parola bellissima che vorrei utilizzare per la fotografia. Perché implica la tensione e il movimento di chi guarda: la prossimità o vicinanza o presenza accanto alle cose e alle persone. Perché implica, per lo sguardo, l’attraversamento di una linea che per qualche misterioso (e talvolta casuale) motivo congiunge chi guarda a ciò che è guardato. Per un attimo. Perché implica una volontà di contatto, magari solo visivo, ma comunque contatto.

Intercettare. Parola bellissima che lascia immaginare uno sguardo che ha il coraggio di mettersi in mezzo alla strada della vita, di fermarla per un attimo, guardarla negli occhi, e poi raccontarla.

Il dagherrotipo di Dio

12 Lug

La nuova acquisizione per la mia collezione di fotografia immaginaria è qualcosa di stupefacente: la foto, meglio: il dagherrotipo, di Dio. E’ stata scattata a Macondo, da José Arcadio Buendia, come racconta Gabriel Garcia Marquez in Cento anni di solitudine.

A Macondo il dagherrotipo era stato introdotto da uno zingaro, Melquìades, scatenando, in un primo momento, un vero e proprio terrore. Ma dopo la paura iniziale, Buendia decise di utilizzare il nuovo strumento meccanico per ottenere la prova scientifica dell’esistenza di Dio.

Mediante un complicato processo di esposizioni sovraesposte prese in diversi luoghi della casa, [José Arcadio Buendia] era sicuro di fare prima o poi il dagherrotipo di Dio, se esisteva, o di porre fine una volta per sempre all’ipotesi della sua esistenza.

Dunque, la foto da immaginare è frutto di esposizioni multiple che si sono depositate sulla sottile lamina del dagherrotipo conservato preziosamente in una scatola di marocchino rosso, consumata dal tempo e dalle mani diverse che l’hanno aperta con curiosità o timore. A dire il vero, l’immagine è un po’ complessa da decifrare, a causa dell’inclinazione che bisogna dare alla lastra per osservarla al meglio e dell’equivoco guazzabuglio di forme che convivono nell’inquadratura.

L’immagine presenta, in primo piano, una macchia bianca che occupa tre quarti dell’inquadratura. E’ verosimile pensare che si tratti della traccia luminosa di una mano, della quale si riconoscono chiaramente i solchi profondi che incidono il palmo. Nel quarto restante, in alto a sinistra, una macchia scura, meno definita, richiama una schiena: composta e solenne nel suo lento incedere verso il fuori campo.

Così immagino questo dagherrotipo, appoggiandomi alle parole del Deuteronomio, quando Mosé chiede al Signore se gli è permesso di vederlo. Al che il Signore gli risponde: Quando passerò e mi manifesterò, ti nasconderò in una spaccatura della roccia e ti coprirò con la mia mano, finché io sarò passato. Quando poi toglierò la mano tu potrai vedermi di spalle; ma la mia faccia non si può vedere! Dunque, è lecito pensare che la mano e le spalle ritratte nel dagherrotipo altro non sono che la mano e le spalle di Dio.

Tuttavia, altri autorevoli commentatori (il bibliotecario Giorgio Luigi Borghese e il dagherrotipista milanese Beniamino Terraneo), cui ho voluto – data la delicatezza della questione – sottoporre in visione l’immagine, hanno respinto la mia ipotesi visiva. Entrambi sostengono, infatti, che la mano in primissimo piano (che sfonda la messa a fuoco minima) sia quella dello stesso Buendìa, ritratta mentre armeggia con il tappo dell’obiettivo. Come pure di Buendìa sono le spalle sullo sfondo, ripreso – in una delle tante pose multiple accumulate – mentre si allontana in tutta fretta dal campo visivo dell’inquadratura. A sostegno della loro ipotesi, altre parole delle Scritture, in particolare quelle che affermano che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza.

L’ossigeno della fotografia

11 Lug

 Il fotografo iraniano Reza dice che quando non fotografa si sente come un leone in gabbia, come se gli mancasse l’ossigeno. E prosegue: Non mi metto necessariamente nella “condizione” di fotografare. E’ una seconda natura. Non divento ogni volta fotografo, lo sono sempre.

Parole bellissime che ho fatto mie da tempo, nella pratica fotografica e nell’insegnamento. Ma rileggendole, oggi, sono un po’ spiazzato, e sottolineo oggi, perché sento che devo riadattare quelle parole – nate in un contesto e in una pratica fotografica analogica – ad uno scenario che ha molto stravolto le modalità di acquisizione delle immagini.

Oggi le parole di Reza devono misurarsi con un’altra realtà: i cellulari, in tutte le loro intriganti declinazioni tecnologiche, ci hanno resi tutti fotografi. In altre parole: non dobbiamo più diventare/trasformarci in fotografi per il semplice fatto che, potenzialmente, lo siamo sempre, in ogni momento della giornata: basta avere tra le mani, ad esempio, un iPhone. Ed è sufficiente scorrere una qualsiasi bacheca di Facebook per toccare con mano con quale vertiginoso ritmo le immagini fotografiche sono prodotte ed esibite.

Sia ben chiaro: non sono tra i nostalgici, a tutti i costi, dei sali d’argento e, tanto meno, ripudio il digitale come espressione dell’imbarbarimento della fotografia. Sono semplicemente un fotografo che vive ed opera all’interno di un mutamento e cerca di capirlo. Ed è proprio per questo che mi chiedo: ma che fine ha fatto l’ossigeno?

Se per Reza la fotografia era necessaria (come l’ossigeno, appunto),  possiamo dire altrettanto per la fotografia “da taschino”? Oppure c’è dell’altro? Il fatto è che la fotografia-da-taschino respira in un altro modo: ha sviluppato – come dice Alessandro Baricco ne I Barbari – le branchie. Per la fotografia-da-taschino, ad essere necessaria non è più la fotografia come atto etico, estetico o intellettuale (come, ad esempio, nei lavori di Diane Arbus o Nan Goldin; nelle Verifiche di Ugo Mulas o nell’epica delle migrazioni di Salgado, tanto per citare alcuni nomi a caso). Per la fotogafia-da-taschino ad essere necessaria non è la fotografia, ma la possibilità, in ogni momento, di prelevare immagini dalla realtà, senza gerarchie etiche, estetiche o intellettuali. Con il rischio – ecco il motivo del mio spiazzamento – di produrre immagini che, non essendo più necessarie come l’ossigeno, si rivelano sempre più spesso superflue.